Quelle frontiere dell’ambivalenza

“Introduzione ai media digitali” di Adam arvidsson e Alessandro Delfanti per Il Mulino

Se è vero che ogni nuovo mezzo di comunicazione trova una sua legittimazione perché riempie un vuoto o perché realizza una promessa non mantenuta del medium che lo ha preceduto, la parola nuovi media si qualifica soprattutto per la promessa di democratizzare la produzione e l’accesso a informazioni, conoscenze e contenuti artistici e culturali. Adam Arvidsson e Alessandro Delfanti (Introduzione ai media digitali, Il Mulino, 169 p. 14 €) scelgono il termine “media digitali”, sia perché non è più tempo di utopie, sia perché sono ormai talmente diffusi e pervasivi da essere perfettamente integrati nelle nostre vite
di tutti i giorni, sì da aver perso quell’attributo di novità e, insieme ad esso, gran parte della loro carica rivoluzionaria.

Oggi il computer, i videogiochi, il cellulare il web hanno trovato la propria sistemazione integrandosi con i media precedenti, talora rivitalizzandoli, spesso confondendosi con essi. Eppure possiedono delle caratteristiche – sono multimediali, convergenti, ipertestuali, distribuiti, interattivi, sociali e mobili – in grado di differenziarli dai media tradizionali e che aiutano a spiegarne il profondo impatto esercitato in molti ambiti.

I media digitali hanno sempre viaggiato sul confine tra lavoro, socialità e gioco. E proprio tale caratteristica di frontiera li rende multidimensionali, intrinsecamente ambivalenti e adatti ad essere interpretati da punti di vista molto diversi. Uno strumento impiegato dal capitale per aumentare la produttività del lavoro, mediante l’automazione e la nuova organizzazione del lavoro basata sul governo dei flussi informativi; per spezzare il potere contrattuale della classe operaia, con la redistribuzione del potere globale; per “mettere al lavoro” anche la socialità e il tempo libero, attraverso l’estrazione di valore dalle complesse
interazioni situate nelle reti sociali online. La stessa ondata innovativa può però dar luogo a concrete utopie libertarie, a movimenti reali che praticano la disintermediazione di figure parassitarie fondate su di una rendita di posizione: gerarchie di potere, pesanti e burocratiche multinazionali dell’industria culturale, pratiche giornalistiche obsolete, la stessa industria delle telecomunicazioni e dell’informatica alla base della rivoluzione digitale.

L’indebolimento delle solide posizioni garantite dall’assetto moderno si accompagna al nuovo dinamismo dei movimenti, alla socialità della collaborazione diffusa. Relazioni deboli si sostituiscono a legami forti e la produzione sociale diffusa si erge nella pretesa di sfidare i templi dell’elaborazione culturale, scientifica, politica. I flussi governano i luoghi, la forza dei movimenti di fronte all’immobilismo dei partiti, un’intera generazione di intellettuali incapace di orientare l’opinione pubblica, sempre più ingovernabile.

Tali cambiamenti, riconoscono Arvidsson e Delfanti, vanno tuttavia spogliati della retorica democratica che solitamente contraddistingue i discorsi che se ne occupano. Con le nuove tecnologie nascono anche nuove forme di censura e controllo sociale e i poteri esistenti possono risultarne rafforzati anziché indeboliti.

La storia delle tecnologie informatiche è radicata nei mutamenti economici, politici e sociali che ne hanno permesso la nascita e che ne determinano le traiettorie di sviluppo, in cui convivono istanze di controllo e di liberazione, e che progredisce per scarti successivi, avanzando sull’onda del conflitto fra questi due momenti e ponendosi, al tempo stesso come motore di un profondo mutamento nelle relazioni sociali.

La trasformazione del computer da tecnologia burocratico-militare a elettrodomestico e centro di intrattenimento per le famiglie e la parallela evoluzione di Internet furono in realtà il frutto dell’appropriazione e della riconfigurazione delle nuove tecnologie da parte di hacker, attivisti dei movimenti degli anni ’60 e ’70, industria dei videogames e aspiranti imprenditori della Silicon Valley. Da qui è riconducibile la cultura della partecipazione, che spinge gli utenti a contribuire alla produzione di informazione in forma libera, svincolata dalle dinamiche canoniche dell’industria culturale e che ha prodotto beni comuni fondamentali, come il software libero o la stessa architettura aperta e decentrata
dell’odierna internet.

Chi volesse avvicinarsi all’argomento troverebbe in questa agile introduzione un materiale articolato, in cui la prospettiva sociologica si integra con quella storica e con l’analisi economica. Punto di partenza non ideologico per ulteriori, necessari, approfondimenti.

Pubblicato su “Il Manifesto” del 26 aprile 2013

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Una risposta a Quelle frontiere dell’ambivalenza

  1. GP ha detto:

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